Il Mostro Spettacolo


Impatto mediatico senza mediazione

Articolo del 26 Agosto 2018, scritto da Donato Maniello

“La costruzione dei quadri è stupidamente tradizionale. I pittori ci hanno sempre mostrato cose e persone poste davanti a noi. Noi porremo lo spettatore nel centro del quadro.” Era il 1910 e questo era un passo de Il Manifesto Tecnico della Pittura Futurista oggi al centro di molte delle anticipazioni estetiche relative alle logiche immersive contemporanee. Negli anni '50 Bruno Munari costruiva, con la tecnica del collage, le “Proiezioni dirette” realizzando di fatto - con il dinamismo di una pittura tascabile - le basi di quello che in seguito fu chiamato nel 1970 da Gene Youngblood nel suo omonimo libro “expanded cinema”[1]. Quest'ultimo indica l'uso combinato di quelle tecnologie della rappresentazione che hanno la potenzialità di espandere il cinema, creando un'intima commistione tra arte, scienza, tecnologia e aprendo ad orizzonti del tutto nuovi con ricadute a livello culturale, sociale ed economico. Una prima applicazione di questo nuovo stato di realtà, che di fatto rende dinamici gli statici collage di Munari, si ha nel 1965 con l'artista Stan Vanderbeek con la sua opera intitolata Movie-Drome interior, in cui flussi di immagini scorrevano liberamente sull'intradosso della cupola emisferica adattata a schermo in cui gli spettatori, comodamente distesi durante l'osservazione, creavano i propri riferimenti visivi. Oggi chiameremo tutto questo VJ o Live Cinema, tecniche che di fatto hanno reso usuale espandere la realtà per aumentarla a dismisura, realizzando il sogno utopico di vedere non solo l'arte fuori dagli schermi ma anche di rendere attivo e partecipativo lo spettatore che non è più posto staticamente di fronte al quadro e ne diviene parte della scenografia multimediale. Travalicare lo schermo tradizionale è significato “spazializzare” i contenuti, “aumentando” la realtà e “mappandone” lo spazio. La Spatial Augmented Reality[2], più conosciuta come video mapping, è stata fautrice di questo cambiamento in quanto ha reso possibile adattare i contenuti su qualsiasi superficie, trasformando gli spazi pubblici in grandi display, dei fari accentratori per le folle che si trovano immerse in veri e propri spettacoli.


“È il Mc Donald’s delle mostre: hamburger Klimt per tutti”. Tommaso Montanari


Abbandoniamo per un attimo l'ambito prettamente artistico/performativo e volgiamo lo sguardo a quello culturale, quando cioè si abbandona la caotica sequenza dei flussi di immagini e la si concentra per veicolare un “messaggio” ad esempio con le mostre multimediali o "experience". Negli ultimi anni sono diventate sempre più di moda e il successo sembra non arrestarsi, come dimostra la recente realizzazione a Parigi intitolata L'Atelier des Lumières. Il consenso mediatico e l'accondiscendenza di riviste on line hanno azzerato il dibattito sulla loro funzione, tranne qualche decisa e rara opposizione al loro proliferare come quella presa dallo storico dell'arte Tommaso Montanari. Una delle conseguenze è una spettacolarizzazione artefatta in cui enfasi, teatralizzazione ed edutainment forzato vengono ad avere il sopravvento sulla realtà storica, che ha dinamiche ben più complesse, spesso troppo semplificata in cui il bene reale finisce per essere un oggetto da replicare all’infinito su cui insiste una quasi maggiore curiosità rispetto all’originale, concretizzando quello che Jean Baudrillard definiva iper-realtà, come se la virtualizzazione del bene o la sua fruizione con mezzi digitali generasse, agli occhi dell’utente, coincidenza di valore o in alcuni casi perfino un peso maggiore. La conseguenza è la difficoltà di discernimento con la copia perfetta di cui non sapremo nemmeno che è una copia. In queste mostre che nulla hanno di “mostra” nel senso classico se non nell'atto del mostrare, l’arte si virtualizza perdendo la sua caratteristica matericità e il “Museo” viene trasformato in un luna park in cui i capolavori dell’arte contemporanea scompaiono, immersi nella macchina divulgativa mediatica. La giustificazione prevalente a questo uso sempre più massivo di schermi fatti per lo spettacolo, seppur giganti e immersivi, è che in alcuni casi tali tipologie di mostre si possono configurare come l’unico e solo mezzo per fruire di tali capolavori, seppur riprodotti, da parte di utenti che difficilmente avrebbero viaggiato per raggiungere le sedi di reale esposizione, o come l’unico modo di riunire in un’unica mostra opere che difficilmente potrebbero essere contenute in una sola.


Gli schermi coprono gli spazi, adornandoli come un Barocco contemporaneo.


In alcuni casi possono condurre lo spettatore sicuramente in un viaggio alternativo ma quello che dovrebbe in seguito accadere è che si abbia poi voglia di scoprire le opere d’arte originali nei loro contesti e matericità, ma si può ragionevolmente concludere che questo non (sempre) accada. Un’altra questione da non sottovalutare riguarda gli spazi in cui tali spettacoli si compiono che dovrebbero essere realizzati in ambienti neutri al fine di evitare il deprecabile paradosso di annichilire gli spazi di pregio in cui questi sono ospitati che sicuramente attirano il consenso dei media e di un pubblico generalista a questi favorevole. Paradosso che purtroppo è diventato realtà come dimostra l’esposizione dedicata a Van Gogh recentemente realizzata a Napoli presso la Basilica di San Giovanni Maggiore, il cui interno è stato ricoperto da apparati multimediali e video mapping, alla stregua di un barocco contemporaneo, che ne hanno annichilito la sua intrinseca bellezza piegando quegli spazi a funzioni non consone. Si enfatizzano le dimensioni per un sicuro effetto scenografico – spesso non mediato dall’esperienza culturale diretta – e l’attenzione nell’organizzazione di tali esposizioni si allontana da altri importantissimi aspetti riguardanti le logiche espositive. È necessario impegnarci a pensare a soluzioni che si rivolgano al contemporaneo ma siano proiettate al futuro senza con ciò caricarci di tutte quelle aspettative, poi tradite dalla pratica di utilizzo, che la tecnologia inevitabilmente ci dona. L’iper-realtà di Baudrillard è così mutata nel tempo che sembra diventata una componente della realtà. Da qui il ruolo fondamentale che ha la visione come strumento critico di analisi ma sopratutto di interpretazione della rappresentazione in epoca post-digitale[3].


ICOM Italia 2008: Mostre-spettacolo e Musei: i pericoli di una monocultura e il rischio di cancellare le diversità culturali.


Diventa interessante interpretare il presente in base a quanto è stato preconizzato in passato quando nel 2008 l’ICOM Italia (International Council Of Museum) redige una raccomandazione intitolata: Mostre-spettacolo e Musei: i pericoli di una monocultura e il rischio di cancellare le diversità culturali. A questi spettacoli infatti si va per vedere non per osservare, perchè solo con l’osservazione nascono memorie e storie da raccontare. In passato Lev Manovich[4], prevedendo l’immersione nei display di ogni tipo e dimensione nelle nostre vite, ha posto interessanti quesiti e affrontato ricerche stimolanti sulla modalità di fruire gli spazi del futuro: la consapevolezza di tali tecnologie diventerà irrilevante e invisibile o le persone finiranno con una nuova esperienza in cui i livelli spaziali e informativi sono ugualmente importanti? Come dimenticare cosa affermava Walter Benjamin[5] quando parlava dell’unicità dell’opera e della sua aura? Adesso c’è invece lo choc, l’urto, l’impressione[6]. Categorie con cui egli ha letto profeticamente l’avvicendarsi del novecento e del nuovo millennio. L’hic et nunc dell’opera d’arte che costituisce il concetto della sua unicità è oggi diventato ubiquo e di difficile determinazione perché sprofondato nel mondo “liquido” della digitalizzazione in cui il fruitore si trova immerso e tenuto costantemente in allenamento in vista degli choc cui viene costretto.


WOW effect.


Il rischio è quello di rincorrere il WOW effect piegandolo alle leggi di un mercato culturale che non sempre risponde ai bisogni che possiede l’elemento originario ma che anzi spesso produce un surrogato di emozioni inclini al virtuosismo digitale e alla semplificazione. Bisognerebbe iniziare a porsi criticamente e costruttivamente nel mondo delle rappresentazioni 3D e della loro resa finale (sia essa in SAR, AR o MR) al fine di evitare di accettarne i risultati acriticamente, soprattutto quando questi hanno fini divulgativi e scientifici. Ora che disponiamo di tutti gli strumenti teorici e digitali possibili è il momento di porsi altre interessanti domande, ad esempio sulla qualità dei rendering e delle ricostruzioni, sui contenuti scientifici, sulla qualità dell’allestimento, sulle scelte comunicative e sui mezzi etc.. In sostanza quando una persona esce da una visita, le scelte allestitive sono servite realmente ad accrescerne la sua conoscenza?Essendo diventato il digitale un linguaggio a tutti gli effetti, esso è oramai “un mezzo” e non “il solo mezzo” per la creazione di una comunicazione efficace, soprattutto quando ci si discosti dall’ambito prettamente artistico/performativo (in cui tutto pare possibile) per affrontare la comunicazione su un campo delicato come quello dei beni culturali. E questo perchè il digitale sarà sempre di più nel tempo una questione legata alla cultura che non alla tecnologia in sè. È bene che si prenda atto, partendo da noi operatori multimediali, per costruire il futuro del mondo culturale che vogliamo, al fine di evitare in questo caso che l'arte, prima uscita dagli schermi, si rinchiuda sempre di più in scatole asettiche fatte da schermi che producono all'infinito un surrogato di emozioni senza mediazione alcuna.


[1] Youngblood, G. (2013). Expanded cinema. P. L. Capucci e S. Fadda (a cura di), Bologna: Clueb.

[2] Maniello, D. (2018). Tecniche avanzate di video mapping: Spatial Augmented Reality applicata al bene culturale. Brienza: Le Penseur.

[3] Brusaporci, S. (2017). Della Rappresentazione in Epoca Post-Digitale. In Lineis Describere. Sette Seminari tra rappresentazione e formazione. (pp.47-59). Melfi: Libria.

[4] Manovich, L. (2006). The Poetics of Augmented Space. Visual Communication, vol. 5(2), pp. 219-240.

[5] Benjamin, W. (2014). L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Segrate: Einaudi.

[6] Benjamin, W. (2012). Aura e choc. Pinottie Annibale, Somaini Antonio, (a cura di). Segrate: Einaudi.